Dei finanziamenti alle scuole private – o meglio alle scuole “pubbliche non statali “( virtuosismi linguistico-legislativi) – non si parla! Tra le nicchie di spreco non si cita la proliferazione di istituti gestiti da privati (Fondazioni a partecipazione statale) dove letteralmente si acquistano titoli di studio, finanziati direttamente con i soldi pubblici. Sono miliardi gli euro stanziati dal 1998 ad oggi, da quando il Ministro Berlinguer stilò il testo unico sulla “concessione di contributi alle scuole secondarie legalmente riconosciute e pareggiate”, pratica incrementata dal Ministro Moratti (che tra i tanti provvedimenti previde l’abbassamento della soglia di alunni per classe, da 10 a
.
L’ipocrisia del piano programmatico della legge è lampante, i tagli sono urgenti e devono passare per decreto legge ma i progetti di riconversione professionale, di rinnovamento della formazione, di revisione dei parametri di assunzione sono solo al livello di promesse.
Tale smantellamento dev'essere letto inserendolo in quel progetto che vede la ristrutturazione del sistema dell’istruzione adeguarsi alle nuove esigenze del mercato del lavoro.
Tutti i provvedimenti legislativi, in materia d’istruzione, sono volti alla trasformazione dell’Università in senso aziendalistico, e di conseguenza volti a rendere lo studente sempre più funzionale e inquadrato ai cambiamenti che il sistema produttivo esige: lavoro interinale, flessibilità, libertà di licenziamento etc.
Sono questi i decenni nei quali sono state pianificate e approvate le leggi di riforma del mercato del lavoro: Pacchetto Treu, Legge 30, in più l’attacco all’articolo 18.
Tali riforme hanno visto la progressiva distruzione di ogni diritto conquistato attraverso decenni di lotte di cui sono stati protagonisti lavoratori e studenti uniti.
Nel periodo di crisi in cui il sistema produttivo si trova, è evidente quanto la possibilità di trovare un posto fisso stabile e retribuito sia un miraggio. Tutto ciò è avvenuto proprio in seguito a quelle riforme (nate dalla necessità della classe dominante di mantenere inalterata la propria supremazia) che hanno ormai reso palese quanto la parola d’ordine del nuovo mercato del lavoro sia flessibilità, che noi traduciamo direttamente con precarietà.
La flessibilità non è altro che il via libera all’introduzione di nuove tipologie di lavoro (precario) quali il lavoro a chiamata (attraverso il quale, il lavoratore, in cambio “di un indennità di disponibilità”, deve dichiararsi pronto ad effettuare una prestazione lavorativa in qualsiasi momento l’azienda lo chiami), il lavoro accessorio ed il lavoro a prestazioni ripartite o job sharing (paghi1 prendi 2). La forma più diffusa di precarizzazione rimane, tuttavia, il lavoro continuativo a progetto (Co.Co.Pro), ormai diffuso in tutti i settori lavorativi e, come abbiamo già spiegato, anche in quello accademico, nella pubblica amministrazione e nella Scuola Pubblica attraverso il meccanismo dei P.o.f.
Questi provvedimenti, indebolendo il potere contrattuale del lavoratore, e minandone i diritti, servono a spostare l’equilibrio tutto a vantaggio delle imprese; provvedimenti che si completano con le correzioni apportate ai contratti di formazione e alla certificazione dei rapporti di lavoro, dove i governi hanno assegnato ad enti bilaterali una serie di competenze in materia di collocamento, formazione, di ammortizzatori sociali: tanto per fare un esempio, citiamo l'A.D.I.S.U. che è appunto un'azienda a capitale pubblico creata per l'erogazione dei servizi concernenti il “diritto allo studio” in Regione Campania, e che a sua volta esternalizza e svende i servizi di sua competenza ai privati (come avvenuto per le mense).
Il sistema, attuando una così distruttiva riforma del lavoro, ha bisogno di una formazione le cui competenze siano specifiche, e che necessitino di un aggiornamento continuo a seconda delle esigenze che il mercato del lavoro impone: si tratta di una “formazione dalla culla alla bara”, non a caso le riforme non riguardano soltanto l’Università ma partono dalle scuole primarie e arrivano fino al mondo del lavoro (master, scuole di spec. corsi di aggiornamento). In tal modo si attua quella flessibilità della forza lavoro che si converte in adattabilità ai ritmi sempre più frenetici che l’economia impone.
Che fare e come farlo?
Mentre si cerca di raggiungere un obiettivo non bisogna usare un mezzo diverso dall'obiettivo stesso a cui si mira. Una pratica di lotta deve non essere fine a se stessa, ma avere in sé il proprio fine.
Se io del fine che mi propongo non ho nulla o non mi esercito a produrre nulla, questo fine sarà “per sempre” un che di separato da me, e non varranno a nulla gli sforzi che faccio per raggiungerlo.
dall'Assemblea Permanente
La filosofia e la scienza occidentali hanno provveduto con un grande sforzo a rendere quantificabile e misurabile quasi ogni cosa. Ora l'ideologia capitalista ha trovato parametri di scambio per mercificare anche ciò che prima non trovava spazio sul mercato. È il caso del sapere. Lottare contro questa tendenza non significa semplicemente fare barricate e cortei.
Posto che una lotta vera va all'origine del problema piuttosto che limitare i danni o difendere un interesse particolare, allora bisogna ripensare il sapere ed il suo configurarsi come istituzione.
L’università si deve occupare di se stessa: è chi l'università la vive e la subisce giorno dopo giorno che ne costituisce il corpo vivo ed è in grado di vedere gli effetti nefasti dell'esistente. Ogni singolo rapporto di potere, ogni singola ora di corso frontale, ogni singolo seminario “a credito”, ogni singolo stage, esame, pranzo fugace... sono tutti ingranaggi che testimoniano un'impossibilità di autodeterminazione: la logica del profitto e dell'accumulazione e del suo sfruttamento permea ogni momento della vita universitaria. Ma rispondere a questa sterilità diffusa e questo utilitarismo anestetizzato è chiedersi come tornare a vivere. Qual è il modo? Non è possibile pensarlo senza interpretarlo: ricominciare a vivere è infatti impossibile da morti e senza praticare effettivamente tale vita. L'alternativa, per scongiurare il rischio di rimanere relegati alla fumosa immaginazione, deve diventare un come vivente, una serie di pratiche quotidiane che attraversino l'università giorno dopo giorno e che facciano dell'autodeterminazione, come processo individuale (ma non individualizzante) e collettivo (senza essere deresponsabilizzante), il loro obiettivo tendenziale.
Questo tipo di pratica deve far emergere e porre come fondative dei processi conoscitivi quelle relazioni transindividuali che sono frustrate e rischiano di rimanere soffocate dai tempi contingentati e da uno spazio universitario che non sa dare parola alla critica di ciò che, sempre più passivamente, si apprende. Già l'Assemblea Permanente vuole essere un tentativo di riaffermazione dell'università come spazio pubblico, in grado di autodefinirsi ed autogestirsi. Organismo nel quale gli studenti si appropriano delle forme di trasmissione del sapere e degli spazi, in controtendenza con i tempi ed i modi esistenti.
Dare spazio a lavori sperimentali di vario genere, dal seminario al vero e proprio workshop, è una risposta alla riproposizione stantia dell'ideologia dominante, che il sistema baronal-aziendalistico continua a suggerire come unica risorsa possibile. Un workshop può essere tanto di una giornata quanto di un mese o più. Parteciperemo ai momenti più importanti della mobilitazione d’autunno contribuendo alla formazione delle piattaforme vertenziali con le altre realtà in lotta in vista di obiettivi concreti. Ben sapendo, però, che possiamo e dobbiamo concentrarci nella produzione reale di pratiche di lotta autonome e singolari nella speranza di seminare partecipazione e senso critico. A tal fine rivendichiamo la gratuità assoluta (in termini economici e “creditizi”) e la libera partecipazione di qualsiasi soggetto ad ogni nostra attività ed un ripensamento fin da ora possibile dell'attività didattica. Che l'attività didattica sia direttamente ricerca condivisa e che la ricerca sia gratuita. È possibile pensare di riformulare i corsi, organizzandoli in tre momenti obbligatori (rimodulando i corsi su base annuale):
* il primo comprende un maggiore sforzo nell’uso degli strumenti informatici: le dispense e gran parte del materiale didattico deve essere distribuito via web, alleggerendo e lasciando tempo per approfondire gli argomenti durante la lezione; ogni docente (che già ha riservato uno spazio web) potrebbe iniziare a gestirlo secondo il modello della “pubblicazione aperta” (open publishing) trasformandolo in un vero e proprio forum di discussione, interfaccia perennemente accessibile tra studente e professore. Pretendiamo inoltre che ogni materiale prodotto dall'università, perché frutto di ricerca con capitali pubblici, sia coperto da licenza copyleft (in modo da non ledere direttamente il diritto d'autore, ma di garantire il diritto al sapere);
* spostare il baricentro della didattica verso l’attività seminariale, modello ormai perso che va necessariamente recuperato per permettere una partecipazione al processo didattico completa; lo svolgimento di un tipo di approccio diverso come un confronto diretto con la lettura e la scrittura di un testo, aprendo spazi per iniziative pratiche di laboratorio anche per le materie umanistiche), attorno alla quale reinvestire l’apparato di ricercatori e dottorandi troppo spesso dequalificato e sottostimato dal punto di vista dell’impiego didattico (considerato che un ricercatore non è un supplente né un portaborse;
* un mantenimento dell’imprescindibile ruolo della Lectio Magistralis che, sgravata di compiti doverosi dalle suddette attività, possa recuperare il suo spazio di serio approfondimento liberamente curato e gestito dal docente.
Ovviamente tutto ciò va pensato tenendo conto della possibilità che non si sia in grado di frequentare stabilmente l’università ( il caso dei lavoratori ) e quindi ogni docente deve essere tenuto ad una gestione del corso flessibile che si articoli almeno in 3 progetti diversi, non differenti per difficoltà ma solo per partecipazione richiesta.
Dove non vi è scelta non c’è neanche conoscenza.
Un'altra università è possibile e passa da una serie di richieste immediate:
* L'apertura dei canali decisionali al popolo del precariato universitario, a livello decisionale e consultivo: che gli studenti ed i ricercatori sappiano e possano decidere di come e quanti soldi vengono investiti nei propri dipartimenti e nelle proprie facoltà.
* La pubblicazione delle spese di bilancio e dei libri contabili.
* L'eliminazione del paragrafo m) del comma 1 dall'art. 17 dello Statuto della Federico II che sancisce la partecipazione al C.d.a. di “un rappresentante di ciascun ente pubblico o privato che, per la durata in carica del Consiglio, concorra
* alle spese di funzionamento dell'Università in misura annuale fissata dallo stesso Consiglio di
* Amministrazione, con fondi non finalizzati allo svolgimento di specifiche attività”, in modo da scongiurare alla base la possibilità di dirigismo finanziario da parte dei privati.
* L'apertura degli spazi universitari e l'estensione dei tempi in cui essi rimangono aperti: dalle biblioteche alle aule studio, che lo spazio ed il tempo venga restituito agli studenti.
Sappiamo che esiste una sconfitta pari al venire corrosi: non l'abbiamo scelta noi, è dell'epoca in cui viviamo. Ma noi abbiamo scelto di agire di conseguenza.