Ne consiglio la lettura per una visione ampia della nostra causa è lungo ma illuminante:
Alberto Burgio (prof. di Storia della filosofia dell'Università di Bologna) Liberazione 21-11-2008
I fatti parlano da soli, si dice. Quindi si cerca di far parlare ai fatti la lingua che più conviene. E quali fatti son più fatti dei numeri? Piove sull'università e sui suoi destini un'orgia di cifre. In gran parte fasulle, come quelle fabbricate da Francesco Giavazzi, secondo il quale «l'unica certezza» di questa «riforma che non esiste» sarebbe l'imminente esplosione del corpo docente. Cerchiamo allora di partire da qualche cifra attendibile (fornita da Eurostat, Ocse e Miur), per capire di che cosa stiamo discutendo.
La spesa pubblica italiana per l'istruzione universitaria è l'1,6% della spesa pubblica totale, contro la media europea del 2,8% e la media Ocse del 3%. È pari allo 0,76% del Pil (era lo 0,8% quattro anni fa), in proporzione l'ultima nell'Europa dei 27, dove la media è dell'1,15%. Spendono molto più di noi anche i Paesi anglosassoni, patrie del liberismo (l'1,21% la Gran Bretagna; l'1,33% gli Stati Uniti). Per ogni studente universitario lo Stato italiano spende 8.026 dollari l'anno contro una media Ocse di 11.512.
La spesa pubblica italiana in ricerca e sviluppo è pari all'1,1% del Pil, contro una media europea del 2%, la media Ocse del 2,5% e l'obiettivo del 3% fissato per il 2010 dalla Carta di Lisbona. Tra il 1990 e il 2005 in Italia gli investimenti complessivi (pubblici e privati) in ricerca e sviluppo sono cresciuti di appena il 4% al netto dell'inflazione, contro il 21% della Francia, il 38% della Germania e il 117% della Spagna.
Il rapporto tra docenti e studenti in Italia è di 1:29, contro una media europea di 1:16,4. In Gran Bretagna è di 1:16, in Germania di 1:12. Il rapporto tra ricercatori e abitanti in Italia è del 27‰, contro una media europea del 51‰. In base alla media europea l'università e gli enti di ricerca pubblici italiani dovrebbero disporre di un organico di circa 117mila ricercatori; ne contano 62mila (contro i 147mila della Gran Bretagna e gli oltre 240mila della Germania); con la «riforma che non esiste» ne avranno 54mila. Intanto, il blocco del turn over (la crescita-zero delle facoltà non è un'invenzione di questo governo) ha causato un costante innalzamento dell'età media dei ricercatori, che in Italia si aggira intorno ai 55 anni, mentre in Europa non supera i 43.
Nell'università per com'è oggi non va certo tutto per il meglio. Ci sono anche sprechi e disfunzioni, concorsi iniqui, docenti non all'altezza o improduttivi. Ma i numeri mostrano che il male dell'università italiana non è certo il troppo, è semmai il troppo poco.
In questo quadro cadono i provvedimenti del governo, a cominciare da quelli contenuti nella legge 133, una legge finanziaria (per Costituzione sottratta al rischio referendario) approvata guarda caso in pieno agosto.
In questa legge il governo ha «intrufolato» alcune misure devastanti per il sistema universitario pubblico. Nell'ordine (e tenendo conto degli aggiornamenti contenuti nel dl 180 del 10 novembre): la riduzione di circa il 20% (da 7,1 miliardi a 5,7) del fondo di finanziamento ordinario (già sottodimensionato) per il quinquennio 2009-2013; l'aumento delle tasse di iscrizione per i fuori-corso (circa il 66% dei laureati); la riduzione del 50% del turn-over per il triennio 2009-2011; l'aumento dei poteri di rettori e consigli d'amministrazione; l'esclusione dai finanziamenti delle università che spendono per il personale più del 90% del finanziamento ordinario («bastona il cane che affoga!»); lo stanziamento di 135 milioni per i prestiti d'onore («se sei povero e vuoi studiare, devi far debiti»); dulcis in fundo, la previsione della possibilità di trasformare (con decisione a maggioranza del senato accademico) le università pubbliche in fondazioni private.
Come valutare questi provvedimenti? Si tratta in buona misura di tagli che genereranno effetti drammatici. Molte università risulteranno insolventi, dovranno rinunciare a spese vitali, non potranno nemmeno pagare gli stipendi e verranno commissariate, a norma di legge, dal Ministero. Migliaia di giovani ricercatori precari dovranno dire addio alla speranza di essere assunti, dopo che per anni il loro lavoro sottopagato o volontario ha permesso all'università di funzionare.
Ma i tagli non obbediscono soltanto a ragioni di bilancio (altrimenti non si capirebbe perché i soldi mancano sempre soltanto per la spesa sociale e mai per le armi e la guerra e per le regalìe alle imprese private e alla Chiesa cattolica). Questi «risparmi» servono anche a promuovere una trasformazione complessiva del sistema universitario pubblico. Tra i tagli e l'idea delle fondazioni c'è molto di più che semplice coerenza.
I tagli accelereranno il processo (in atto da anni, in forme striscianti) di privatizzazione dell'università, frammentando il sistema universitario nazionale e cancellando l'università di massa, considerata dalla destra un pericoloso strumento di mobilità sociale (di «egualitarismo», come dice il ministro).
Meno fondi significano tasse di iscrizione più alte, e le fondazioni potranno aumentarle senza limiti. Significano necessità di procurarsi finanziamenti privati, che le fondazioni hanno maggiori probabilità di ottenere, in cambio della totale libertà, per i finanziatori privati, di decidere strutture, forme e finalità della didattica e della ricerca.
Le conseguenze saranno gravissime per tutto il sistema. Gli studenti che non potranno pagare tasse elevate dovranno ripiegare sulle università rimaste pubbliche, che non avranno fondi e forniranno inevitabilmente un servizio scadente. Il personale docente e non docente delle università-fondazioni sarà privatizzato, quindi precarizzato, quindi sottoposto al ricatto dei nuovi padroni. L'università sarà letteralmente depredata, perché la legge prevede che ai padroni delle fondazioni venga regalato, esentasse, l'intero patrimonio immobiliare già in uso alle università trasformate.
Le università-fondazioni continueranno a ricevere soldi pubblici, ma saranno a tutti gli effetti uno snodo del sistema imprenditoriale privato e dominio di potentati oligarchici, organicamente legati alla politica e ai poteri forti del territorio (imprese e banche in primis). I nuovi padroni potranno far valere un potere discrezionale illimitato (perché esercitato in casa propria) sulla didattica e sulla ricerca, con grave pregiudizio per tutto ciò (ricerca di base e discipline umanistiche) che non genera profitti immediati. Non c'è che dire: un bel successo per chi si vanta di combattere contro i «baroni»!
La generalizzazione dei numeri chiusi e l'abolizione del valore legale del titolo di studio (storici cavalli di battaglia della Confindustria e del fronte «meritocratico» bipartisan) faranno il resto, ponendo fine alla «vergogna» (già oggi in verità virtuale) denunciata dal capo della destra in campagna elettorale. Non accadrà più che il figlio dell'operaio (soprattutto - aggiungiamo - se meridionale) abbia le stesse opportunità di un rampollo della buona borghesia. La questione del «merito» è complessa. Chi potrebbe essere contro il riconoscimento dei meriti e la discriminazione dei demeriti? Il problema è: chi stabilisce gli uni e gli altri? È un problema classico. Benché convinto della necessità di ricompensare il merito, Jean-Jacques Rousseau polemizzava aspramente contro l'élite illuminista che, a suo giudizio, nel nome della meritocrazia mirava a riservare a sé ricchezza e potere. Siamo sicuri che quando si lamenta la cattiva qualità dei docenti non si abbiano di mira, in molti casi, le loro idee poco à la page? Com'è stato osservato, oggi molto probabilmente Gianni Rodari e don Milani sarebbero considerati dei «cattivi maestri». E come verrebbero «valutati» un Gramsci o un Gobetti, ammesso che qualcuno darebbe loro una cattedra di filosofia politica?
Il presente che i giovani vedono è una selezione sociale iniqua, castale, oligarchica. È la trasmissione ereditaria delle posizioni, il contrario della meritocrazia. Possibile mai che, in tanto parlare di «caste», nessuno punti l'indice sulla scarsissima, pressoché nulla mobilità sociale? Questo presente vedono studenti e precari dell'università italiana. Come vedono la massa di denaro pubblico regalata alle banche e alle imprese, mentre si nega l'ossigeno alla scuola, all'università e alla ricerca. Vedono questo presente, e capiscono perché si voglia bloccare la diffusione del sapere. Il futuro che vedono è quello che viene sistematicamente negato alla maggior parte dei giovani nelle nostre società, in particolare in Italia. Il futuro che vedono è la confisca del loro futuro: un lavoro dequalificato, sottopagato e precario, il contrario della tanto decantata knowledge economy. Un lavoro per il quale avere studiato non servirà a nulla. Anzi, alimenterà umiliazione e frustrazione. Vedono questo futuro, sanno di incarnare una «posterità inopportuna», e capiscono perché si voglia negare loro la possibilità di formarsi.
L'onda è anomala. La forza della protesta non si spiega soltanto con la gravità della minaccia incombente sul sistema formativo pubblico. Ha cause politiche più generali. Nasce dal clima di crisi generale prodotto dalle difficoltà materiali in cui vivono masse crescenti di popolazione e dalla revoca di legittimità nei confronti di una forma sociale iniqua e distruttiva. La resistenza del mondo universitario non ha oggi nulla di corporativo. Sviluppandosi, la lotta si apre agli altri conflitti e alle altre istanze di trasformazione. Il movimento non si lascia isolare e rinchiudere dentro un'enclave particolaristica. Al contrario. Sbarra la strada a un attacco distruttivo parlando la lingua dell'autoriforma generale della società. Forse siamo agli inizi di una lunga storia.